Ancora una residenza?

Ancora una residenza?

Il periodo di isolamento del lockdown totale della scorsa primavera ha conferito maggior chiarezza sull’itinerario del percorso e sulla filosofia del nostro festival.

E’ evidente la stanchezza che mostrano molte iniziative pubbliche legate al cinema: le formule festivaliere il più delle volte appaiono rigide e standardizzate e non è fatto raro – per fortuna ci sono tante eccezioni – che non rispondano più realmente alle esigenze del pubblico e dei professionisti del cinema. Il profilo performativo, e spesso schizofrenico, a cui sono obbligati certi eventi non aiuta: ai festival spesso viene chiesto di essere popolari in termini di afflusso di pubblico e di sperimentare nella cura della scelta delle opere e degli eventi collaterali; le due richieste, entrambe legittime, dovrebbero perlomeno godere dei giusti tempi, non sempre concessi, dagli organizzatori stessi in prima battuta. Il festival è dunque troppo spesso una performance che risponde a dei dettati di ordine quantitativo – quanti biglietti, quanto pubblico, quanti articoli, quanti follower – alla pari di un qualunque altro progetto imprenditoriale, dimenticando il senso proprio della sua natura.

Per questo il Festival investirà risorse ed impegno in un’attività “collaterale” molto importante, ossia la proposta della residenza artistica “Recita estiva” – titolo di un’opera di Christa Wolf, il racconto di un tentativo di vita più semplice di una comunità di intellettuali tedeschi in un piccolo paese.

La natura residenziale e formativa nasce da un ragionamento collettivo sull’opportunità di proporre delle attività pubbliche legate al festival evitando certi automatismi inefficaci e dannosi che spesso le attività collaterali portano in dote, scegliendo quindi di mettere in essere nuove pratiche, incentrate su quelle che si ritengono le reali necessità di questi tempi del settore “cinema”.

L’isolamento forzato dei mesi precedenti ha rafforzato la convinzione che occorra stimolare la pratica della formazione di nuove comunità che, liberate proprio da obblighi produttivi e performativi, lavorino e discutano liberamente di quello che gli è proprio: le forme possibili del cinema, i suoi modi di raccontare o di fare a meno di ogni racconto, i diversi punti di vista, le speculazioni, l’ozio creativo.

Gli unici obblighi sono l’isolamento dal mondo dal quale si proviene e la creazione di relazioni di comunità plurime attraverso lo scambio di storie e di idee, tra chi partecipa al festival e chi il festival lo ospita. Per assolvere al primo obbligo, quello dell’isolamento, abbiamo pensato che in Sardegna esistono tanti luoghi adatti allo scopo, ma forse uno dei più efficaci in tal senso è proprio l’altopiano della Giara e i paesi che l’occupano, in particolare Genoni.

La comunità di residenza e più in generale la comunità generata dal festival entrerà in relazione con un’altra comunità, quella dei residenti. Troppo spesso infatti la relazione tra queste entità è difficoltosa e fallimentare, mostrando una certa impermeabilità reciproca. È invece necessario che non ci sia un atteggiamento coloniale da parte di organizzatori e “residenti temporanei”, di uso e abbandono successivo dello spazio di convivenza. Il coinvolgimento della comunità residente è dunque un punto fondamentale del processo, come lo è la mancanza di gerarchie nel lavoro con la stessa. Per cui, per tutte le attività di lavoro del festival è previsto un contatto tra chi nel paese vive e lavora e chi ci risiede e/o ci opera solo temporaneamente.

Per inserirsi dentro un contesto difficile come quello festivaliero cinematografico europeo si è ritenuto fosse importante definire anche un tema dell’evento da indagare e approfondire e porre in relazione e confronto con ciò che viene espresso dal nuovo cinema sardo. È stato scelto un tema fecondo come quello dell’abitare e inevitabilmente il confronto si crea tra città, spazi urbani, culture e immaginari che intorno a essi hanno origine e proliferano e i paesi, spesso abbandonati, fino alle aree rurali.

I temi vanno affrontati in un sistema dialettico con quello che città non è, che è il punto di vista geografico dove il discorso si sviluppa: il paese Genoni e i tanti altri limitrofi, ma anche la campagna che del paese è corona, concreta e ideale. La città e il suo contrario, dunque. Un tema che, in tempi di sospensione delle attività cittadine, è diventato dibattito di primo piano da parte di intellettuali, architetti, filosofi ed urbanisti: da Stefano Boeri a Fuksas, Franco Arminio e tanti altri.

Pensiamo di portare questo dibattito, urgente e a rischio fugacità, nelle maglie del nostro progetto culturale non secondo un dibattito vago, generico ed effimero, quanto piuttosto costruendo nuova cultura intervenendo operativamente nei territori che ospiteranno il nostro festival in tutte le sue articolazioni e coinvolgendo la cittadinanza in questo processo attivo di edificazione culturale. Il tutto nell’ottica di mettere in moto processi e dinamiche che non si limitino ai soli giorni dell’evento, ma che, in un circolo virtuoso, mettano in moto nuove dinamiche e nuovi processi anche una volta che il festival avrà concluso il suo programma; secondo una logica seminariale e laboratoriale lontana dal modello più diffuso di “evento culturale”.